di Stefano Resmini, Sardegna Wanderlust III
Se vi trovate tra le mani una sottile fetta di prosciutto tagliata a coltello, e vi state chiedendo dove siete, l’ambiente che vi circonda vi suggestiona gma l’orientamento non vi aiuta.Lasciatevi conquistare dal bell’aspetto della fetta e dal suo colore rosso-vivo uniforme, dal colore bianco roseo del lardo, dai profumi di crosta di pane e di frutta secca leggermente tostata. Portatela in bocca, chiudete gli occhi e adagiatela sulle papille gustative della lingua che subito saranno solleticate dalle varie componenti del salume. Lasciatevi cullare dal suo sapore gradevole, persistente, dolcemente salato, appagante. Nel masticare notate che piacevolmente si scioglie in bocca. Ecco! Siete in Barbagia. Se siete circondati da un verde intenso di foreste primarie di lecci, filliree, biancospini, bagolari, corbezzoli, tassi, ontani neri, aceri montani, sambuchi, castagni e sughere che ammantano il Monte Perdedu, attraversato per chilometri dal fiume Flumendosa, circondato da profonde gole, cascate e laghetti, siete nel paradiso terrestre di Seulo. Un luogo dove si sviluppa un microclima prezioso che contribuisce a dare vita e forma al buon cibo. Un paese montano abitato da centenari, che da tempo immemorabile attua quell’arte raffinata dell’allevamento dei suini e del confezionamento di salumi e prosciutti. È Tonio Moi dell’Azienda Agricola su Mannali a Seulo, il sapiente artigiano, che ci avvolge e ci conquista con le sue narrazioni e dettagli preziosi, a farci capire come quel semplice prodotto naturale diventa culturale. Per ottenere un buon prosciutto è fondamentale utilizzare cosce di suino di razza sarda. La bestia deve essere alimentata con ghiande, castagne, fichi e integrata da grano duro. Il suino deve vivere nel totale benessere naturale, tenuto al pascolo semibrado e vivere felice. Le cosce del maiale fresche vengono rifilate, massaggiate, per agevolare la fuoriuscita del sangue, lavate con aceto rosso, e salate a secco, con sale marino. Ancora massaggiate per favorire la penetrazione del sale. Terminato il tempo dovuto, i prosciutti si lavano con aceto e subito frizionati con un profumato trito di aglio sardo, e rifiniti poi, con una generosa impepata di pepe nero macinato. Li attende ora, per circa una settimana, una corroborante pressatura,con una tavola sotto e una sopra, sotto il peso di un grosso masso. Infine, si controlla la giusta distribuzione delle spezie e si appendono nelle ventilate cantine di Seulo. Si ripongono poi in un luogo fresco per la prolungata maturazione, dove riposano per un anno e mezzo, e oltre, di stagionatura. Nel compiere queste operazioni è indispensabile l’abilità del salatore che deve conoscere i tempi di permanenza sotto sale, per consentire la conservazione della carne e inibire difetti.
I sardi, fin dal Neolitico, allevavano e consumavano la carne suina, cinghiali compresi. In epoca nuragica venivano sacrificati in giovane età, prima di compiere sei mesi. Il loro consumo avveniva in centri cerimoniali, santuari, dedicati al culto delle acque o fonti sacre, dove si eseguivano rituali, offerte, e dove poi, tutti insieme, si pasteggiava. La carne veniva arrostita, grigliata, ma anche essiccata, salata e affumicata.
Il maiale continua a essere l’animale domestico più consumato anche in epoca romana e perciò la sua carne primeggiava nel prezzo. Plinio il vecchio scriveva che la carne suina aveva cinquanta sapori diversi, anziché una e unica di tutti gli altri animali. Cicerone riteneva che il maiale fosse l’animale più commestibile, in quanto, non destinato ad altre funzioni come il bue per i campi o le pecore per la lana e il latte. Il metodo di preparazione e la conservazione del prosciutto, a tutt’oggi, è quasi simile a quella utilizzata nel mondo antico. Oltre 2000 anni fa, Catone il censore, governatore romano in Sardegna, e Polibio, descrivevano l’esistenza di allevamenti di maiali e le loro cosce venivano conservate sotto sale. Perexsuctum (prosciugato) era il nome che i latini davano al prosciutto. La salagione era il metodo più sicuro di conservazione, proprio perché la carne non si deteriorasse. La sperimentazione, nel corso del tempo, aveva subito ulteriori evoluzioni e si era già compreso che i fenomeni naturali come la poca umidità, la buona aria e il clima delle colline, contribuissero a favorire la conservazione dei salumi, e a migliorarne la maturazione. In epoca romana esistevano vari tipi di carne salata, salsicce e insaccati, nonché prosciutti di coscia chiamati perna, e di spalla petaso. Con l’affermarsi della cucina della Roma imperiale i prosciutti conservati sotto sale venivano utilizzati come ingredienti in cucina. Nel Medioevo è il più grande cuoco dell’epoca, maestro Martino da Como, a spiegare come valutare la bontà del prosciutto: «Pianta il coltello in mezzo del presutto, et ponilo al naso; se ‘l coltello ha bono odore il presutto è bono, et così per lo contrario». Il cuoco rinascimentale Bartolomeo Scappi, elogia il prosciutto soffritto oppure utilizzato in crostate o pasticci. Lo scalco Cristoforo di Messisbugo, lo riteneva un prezioso elemento nella composizione dei suoi servizi. Bartolomeo Stefani, nel Seicento, descrive una salsa di presciutto cotto nel vino. Il prosciutto continua a essere utilizzato come ingrediente, cotto, anche con Pellegrino Artusi, e solo in epoca recente si consuma crudo. L’eredità del mondo antico viene accolta e rielaborata in ogni epoca, dal mondo antico all’età moderna, e ancor oggi, nell’edonismo contemporaneo ci si delizia con una buona e sana fetta di prosciutto, confezionata dalle sapienti mani di allevatori e affinatori di Barbagia, memori di un passato in continua evoluzione.