Sa Chea

Di Francesco Ledda, Sardegna Wanderlust III

Trascorsi i giorni della Pasqua, dopo una lunga giornata di intenso lavoro, Antonello risale la scaletta di legno che lo conduce sulla sommità della catasta che ha pazientemente costruito ammassando ordinatamente numerosissimi tronchi e rami, poi ricoperti di fronde di lentischio e infine di terra. In mano tiene un fascio di fronde secche che accende e che poi getta dentro la bocca del camino, insieme ad altri piccoli tronchetti di legno con i quali innesca il fuoco nell’interno di quella che in Sardegna viene ancora chiamata sa chea, (Chea o Kea termine che viene dal greco e che significa appunto combustione).

Il fumo generato dalla lenta combustione pian piano si leva a pochi passi dalla casa in cui Antonello Secchi abita nella frazione di Sa Contra, poco distante dalle cime di Monte Ruju e al di sopra della stretta gola di Scala Ruja, nella quale scorre il fiume Coghinas. È questo lo scenario di rocce e boscaglie situato ai confini della Anglona e proprio dove, oltre il fiume, inizia la Gallura. «Ho iniziato per caso vent’anni fa – racconta – quando, tagliando la legna, ho incontrato un anziano di Lumbaldu, Giovannino. Parlando della carbonaia mi disse che la tradizione era finita e più nessuno faceva il carbone, così io, che non l’avevo mai visto produrre, gli chiesi se potesse insegnarmi la tecnica. Iniziai per curiosità e oggi sono l’unico in Anglona a portare avanti questo antichissimo procedimento. Un’altra chea la fanno a Bortigiadas. Dove realizzo la chea il terreno combusto è diventato impermeabile all’acqua. In quel punto costruisco prima il camino, poi ammasso la legna di vari tipi: lizza, litarru, ozzastru e lioni (leccio, fillerea, olivastro e corbezzolo), infine ricopro la catasta con fronde di chessa (lentischio). Ricopro il tuttocon la terra. Quando accendo il fuoco ogni tanto devo alimentarlo dalla bocca e per almeno sette giorni devo stare lì per controllarlo giorno e notte. Quando il colore del fumo cambia e da bianco diventa viola, allora si capisce che la cottura della legna è avvenuta. Dall’alto verso il basso con un palo faccio dei fori di aereazione nella catasta per far tirare bene il camino e mantenere viva la combustione».

Dopo dieci giorni il carbone è pronto e il tumulo viene pian piano smontato. Richiestissimo da tanti viene velocemente venduto tutto. Antonello alla fine della nostra chiacchierata insieme a Giovannino mi svela un ultimo segreto: «In Sardegna c’è una differenza tra la chea che faccio io e la carbonaia fatta sotto terra solo con il legno di scopa, infatti il carbone fatto sotto terra è quello che usano i fabbri perché dura di più e produce più calore».

 

Antonello è rimasto tra gli ultimi ancora capaci di elaborare quell’insieme di pratiche e di saperi che hanno caratterizzato il lunghissimo percorso compiuto dall’uomo, nella conoscenza dell’utilizzo del fuoco nei suoi aspetti più variegati.

 

Box socio economico sulla produzione del carbone in Sardegna

 

La produzione del carbone ha determinato sia sviluppi di competenze che movimenti di persone e di gruppi che, giunti in Sardegna, si sono insediati a pieno titolo nei processi produttivi e in quelli economici e commerciali già nel corso dell’Ottocento, quando si registra nell’isola un mutamento epocale nei processi di industrializzazione e in quelli infrastrutturali legati principalmente alla costruzione delle linee ferroviarie, delle strade e degli impianti di estrazione e di quelli minerari.

Questo mutamento economico e sociale, sviluppatosi nella seconda metà dell’Ottocento e perdurato nel corso del secolo successivo, ha determinato un profondo cambiamento del paesaggio forestale che ha subito in vastissime aree, giunte dai secoli passati quasi del tutto integre, un danno materiale delle secolari coperture vegetali originarie. Nelle aree montane recessive più impervie e più povere spesso la produzione delle carbone costituiva una voce importante per l’economia di interi gruppi familiari, unitamente allo sfruttamento da un punto di vista pastorale dei terreni liberatisi dal manto forestale. Dalla Toscana giunsero nel corso dell’Ottocento numerosi carbonai che col tempo si trasferirono definitivamente in Sardegna inserendosi nella locale tradizione. I loro cognomi sono tuttora presenti in molti paesi dell’interno ed è a pieno titolo possono ormai definirsi sardi a tutti gli effetti. Anche ai confini storici e geografici segnati dal fluire del fiume Coghinas nella Vallata dell’Anglona e nelle strette gole sotto monte Ruju, oltre il quale si estende la Gallura, questa tradizione si è mantenuta tra le regioni e le borgate di Sa Contra, Tisiennari e Giuncana e dall’Avru fino a Borigiadas.