di Chiara Sanna, Sardegna Wanderlust IV
Intrappolata nelle sue nobili vesti, a metà tra leggenda e realtà, la Vernaccia, alla pari di una nobildonna, lascia le sue orme in tutta quella parte dell’oristanese che attraverso le sue grazie ha saputo conquistare i palati più fini. Nello strascico del suo ampio abito abbraccia tutti quei territori di Oristano a partire da Santa Giusta fino a Tramatza, nella parte centro occidentale dell’oristanese, addentrandosi poi nel Sinis, tra i fiumi Tirso, Riu Mannu e Riu Mare Foghe.
Già dal Novecento si hanno etichette nominate Vernaccia di Oristano, esattamente settanta anni prima della nascita della prima Doc. «Questo testimonia quanto il legame che unisce il vitigno al territorio sia sempre stato forte» ci tiene a specificare l’enologo e agronomo Aldo Buiani, direttore del Consorzio di tutela e valorizzazione della Vernaccia di Oristano. Ma prima di essere nota come oggi la si conosce, fuori dalla Sardegna era appellata come Sardinian Gold, oro di Sardegna.
La poliedricità di questo vino non ha eguali, si sposa con accostamenti importanti, regala un tocco da maestro nei piatti serviti e mostra tutta la sua potenzialità di innovazione. Non a caso, l’obiettivo del Consorzio, che abbraccia sei cantine (Contini, Orro, Cantina del Rimedio, F.lli Serra, S’Anatzu, Il Melograno) è quello di “ripensare” la vernaccia, innovandola con abbinamenti ricercati: dalla proposta del vernacciolo, un dolce al cucchiaio che unisce nel suo binomio Vernaccia e mostacciolo, fino ad arrivare a un completo storytelling, come un abbecedario, per renderla maggiormente nota al consumatore finale. E chissà che qualcuno, durante un tour di scoperta del prodotto, di qui a poco, non si imbatta nella strada della Vernaccia, un percorso ad hoc sognato, immaginato e disegnato per un’esperienza memorabile, in grado di far esplorare quei sentieri che custodiscono la scatola dei ricordi dei vitigni del Mediterraneo. Le tracce nuragiche, a un certo punto, fanno presagire quanto la Vernacula appartenesse alla madre terra isolana e non alla colonizzazione fenicia che, per anni, ha tentato di accaparrarsi il primato. Le origini autoctone sono incastonate in una compagine di comuni che occupano la parte alta dell’oristanese e ne disegnano i confini con le loro caratteristiche. Eccone alcune: la torre campanaria sormontata da una piccola cupola a cipolla della chiesa di San Pietro a Baratili San Pietro, le affollate lagune e le spiagge quarzose di Cabras, i tradizionali canestri in giunco e i fertili terreni di Milis, le rocce vulcaniche del Monte Rassu a Narbolia, l’architettura in terra cruda che anima le vie di Nurachi, le falesie e le tipiche case campidanesi del centro di Riola Sardo, la fertilità de la Terra Arrubia di Solarussa, la tamerice e i resti dell’antico ponte romano sul rio Cispiria Tramatza. Tra le pagine leggendarie, la più nota sembra essere sempre quella di Santa Giustina: dalle sue lacrime, imploranti aiuto per allontanare siccità e malaria, pare siano fioriti i grappoli ambrati della Vernaccia. Volgendo lo sguardo sul territorio, non lo si immagina più sguarnito come una volta: ora è ricco e fiorente, una distesa pianeggiante, patria di quel vino che viene riconosciuto come dono di valore, imponente sulla tavola, dall’irrinunciabile assaggio, simbolo identitario dell’intera nostra isola.